Il favo è un raggruppamento di celle esagonali a base di cera d’api costruito dalle api nel loro nido per contenere le larve della covata e per immagazzinare miele e polline. Con l’espressione “a nido d’ape” ci si riferisce anche ai materiali fatti dall’uomo che ne riproducono la struttura.
Gli assi delle celle di un favo sono sempre quasi-orizzontali, e le file di celle sono sempre allineate orizzontalmente (non verticalmente). Così ogni cella ha due pareti verticali, con “pavimenti” e “soffitti” composti da due pareti angolate. Le celle hanno una leggera pendenza verso l’alto, in direzione dell’estremità aperta, variabile tra 9º e 14º.
La ragione per cui il favo è composto da esagoni, piuttosto che da altre forme, ha due possibili spiegazioni. La prima è che l’esagono suddivide il piano con il minimo perimetro per porzione di superficie, quindi la creazione di un reticolo di celle a struttura esagonale con un dato volume richiede la minor quantità di materiali. L’altra, è che tale forma derivi semplicemente dal procedimento attuato da ogni singola ape per unire tra di loro le varie celle, in qualche modo analogo a quanto si verifica nella creazione delle superfici di contatto in un campo di bolle di sapone. A supporto di questa teoria, Thompson fa notare che le celle dell’ape regina, che sono costruite separatamente dalle altre, sono irregolari e piene di protuberanze, senza alcun apparente accorgimento per l’efficienza.
Anche le estremità chiuse delle celle del favo sono un esempio di efficienza geometrica, seppur tridimensionale e raramente notata. Le estremità hanno forma triedrica (cioè composta da tre piani) piramidale, con gli angoli diedri di tutte le superfici adiacenti ampi 120º, misura questa che minimizza l’area di superficie per un dato volume. (L’angolo formato dagli spigoli di una piramide in prossimità del vertice misura circa 108° 28′ 16″ (= 180º – arccos(1/3)).)
La forma delle celle è tale che due opposti strati di favi si incastrano uno nell’altro, con ogni faccia dell’estremità chiusa condivisa da celle opposte.
Celle singole ovviamente non mostrano questa perfezione geometrica. In un favo regolare ci sono leggere deviazioni percentuali rispetto alla forma esagonale “perfetta”. Nelle zone di transizione tra le celle più larghe dei favi dei fuchi e quelle più strette dei favi delle operaie, o quando le api incontrano degli ostacoli, le forme sono spesso distorte.
La struttura architettonica del nido delle api non trova paragone adeguato che nelle costruzioni realizzate dalla ingegnosità e dalla inventiva dell’uomo, ed anzi in realtà le supera per certi aspetti. In un nido di Apis mellifica vivono diverse decine di migliaia di individui, quanti gli abitanti di una piccola città, in uno spazio che, in proporzione, sarebbe quello di un medio condominio, e questa popolazione è in continua espansione demografica.
L’allevamento delle larve, verso le quali è focalizzata l’attività della comunità, richiede grandi provviste di acqua, miele, polline, propoli, ed inoltre, per il fatto che le api sono originarie di climi più caldi, tutti i fattori microclimatici nel nido devono essere regolati e sostenuti mediante lavoro attivo, in modo da assicurare alle larve l’ambiente più favorevole al loro sviluppo (la covata viene mantenuta a 34-36 °C).
Economizzare spazio e materiali, dunque, risulta essenziale, nel primo caso perché è meno costoso governare il microclima di un ambiente più piccolo, nel secondo perché, a differenza di altre specie sociali che costruiscono i loro nidi scavando nei vari substrati o rielaborando materiali reperiti nell’ambiente circostante, il materiale da costruzione utilizzato dalle api è la cera, una sostanza secreta dalle ghiandole addominali delle operaie solo per un ristretto periodo di vita.
La cera è prodotta, in seguito ad iperalimentazione mellea, dalle ghiandole ceripare, che sboccano dai prosterni IV, V, VI e VII delle operaie. È secreta allo stato liquido, ed attraversa la sottile cuticola degli “specchi”, due larghe aree laterali, ovoidali e traslucide del prosterno, che non sono visibili esternamente essendo ricoperte dalla parte posteriore dell’urosterno precedente.
La cera presenta caratteristiche meccaniche molto scadenti e, ciò nonostante, il nido delle api è solido, capace di resistere per molti anni alle intemperie. Questa solidità, dunque, è data principalmente dalla geometria che caratterizza le singole unità (le celle) e quindi la struttura nel suo complesso. Si potrebbe paragnonare al modo in cui l’esile lamiera di un’automobile acquista rigidità allorquando è modellata in maniera opportuna.
Il principio di economia di spazio e di materiali rende conto della struttura del favo. Il favo, che contiene la covata a diversi stadi di sviluppo e le riserve di miele e polline, è un doppio strato di celle disposto in modo che la base di una di esse faccia da pavimento a quelle della faccia opposta.
Tutte le celle sono a mutuo contatto, in modo che esse abbiano le pareti in compartecipazione (anche questo aspetto è da considerare alla luce del principio di economicità e massimizzazione dei materiali/risorse, vedere sotto). La cella di Apis mellifica è un prisma cavo esagonale, disposto orizzontalmente e con l’asse leggermente inclinato verso il basso dov’è posta la base. Quest’ultima si chiude con una piramide, le cui facce sono tre rombi che ciascuna cella ha in comune con altre tre della faccia opposta; di conseguenza le celle non sono reciprocamente opposte, ma l’asse di ciascuna di esse si trova sul prolungamento dello spigolo del diedro comune a tre prismi contigui dell’altra faccia del favo.
Fu il matematico arabo Kalid ibn-Yazid a fare osservare che vi sono soltanto tre angoli interni di poligoni regolari la cui ampiezza soddisfa questa condizione: 60º (triangolo equilatero), 90º (quadrato), 120º (esagono). Ne consegue, scrisse Kalid, che è possibile associare, mediante lati in comune, quanti si vogliano di questi poligoni, poiché intorno a ciascun vertice se ne possono raggruppare tanti quanti ne indica il quoziente del rapporto tra 360° ed il loro angolo interno, e cioè 6 triangoli equilateri, oppure 4 quadrati o, anche, 3 esagoni. Se le api hanno, per così dire, “scelto” la cella a sezione esagonale, ciò si spiega ancora con ragioni di economia di materiali.