Secondo una leggenda tramandata da Gaio Plinio II detto “Plinio il Vecchio” nel volume XXXVI del suo trattato Naturalis Historia (77 a.C.), gli scopritori del vetro sarebbero i Fenici.
Si crede, infatti, che nella prima metà del secondo millennio alcuni mercanti di nitro, approdati sulla spiaggia presso la quale il fiume Belo si tuffa nelle acque del mare, avessero disposto alcuni blocchi di salnitro per tenere sollevati i pentoloni da porre sul fuoco. Lasciati a bruciare per tutta la notte, avrebbero rivelato, la mattina seguente, una nuova materia brillante e trasparente al posto della sabbia. Questa, dunque, sarebbe stata l’origine del vetro, presto screditata da autori più recenti convinti dell’impossibilità di fusione a temperature così basse. In verità i reperti archeologici dimostrano che il vetro era già conosciuto ed utilizzato prima dei Fenici, durante l’età del bronzo, tra il 3500 a.C. e il 1200 a.C.
In Medio Oriente, infatti, sono stati ritrovati i più antichi reperti vitrei lungo un’area geografica che va dal bacino mesopotamico all’Egitto. Sono tutti oggetti piccoli come perline, sigilli e anelli indicativi del fatto che, probabilmente, le più antiche tecniche di lavorazione non consentivano la produzione di grandi manufatti. Il vetro, inoltre, era considerato molto raro poiché ottenerlo non era affatto semplice, tanto che si credeva potesse esistere un unico luogo deputato alla produzione di questo materiale così speciale e che questo fosse proprio quella famosa spiaggia, sopra citata, in cui il letto del fiume Belo veniva rimescolato dalle acque salate del mare che trasformavano i granelli di sabbia in frammenti particolarmente lucenti. Anche se si tratta solamente di una leggenda, non si può negare che le sabbie del Belo fossero notevolmente adatte alla produzione del vetro: la silice contenuta in esse, infatti, ben si combinava con la soda alcalina ricavata anticamente dalle ceneri delle alghe.
Inventori del vetro, oppure no, i fenici ne furono sicuramente grandi esportatori: eccellenti mercanti, navigatori e guerrieri, avevano già fondato alla fine dell’VIII secolo varie colonie sulle coste del Mediterraneo (specialmente in Sardegna e Sicilia) presso le quali diffusero la loro vasta e preziosa produzione di monili in oro, avorio, ambra e, naturalmente, vetro.
L’artigianato fenicio era di altissima qualità: gli artisti padroneggiavano con eguale maestria le tecniche dello sbalzo, della fusione, della granulazione, della filigrana e dell’incisione, secondo una tradizione orafa che si sviluppò almeno dal II millennio a.C. in poi nell’area siro-palestinese.
La volontà di esportare i loro gioielli e la loro cultura fece sì che venisse a formarsi una vera e propria industria, una produzione in serie di raffinati gioielli e pregiati tessuti rosso porpora, tinti con un pigmento di colore intenso prelevato dal murice comune.
i gioielli riportati alla luce dagli scavi, specialmente da quelli di Tharros, in Sardegna, rappresentano una preziosa testimonianza. Da essi si evince la perizia nella lavorazione dei metalli, con precisa granulazione, filigrana e sbalzo, delle paste vitree e delle pietre dure (ametiste, corniole, cristalli di rocca e turchesi in particolare). Lo stile risente molto dell’influenza egiziana infatti sono stati ritrovati numerosi bracciali ed anelli con scarabei o castoni fissi e mobili con funzione di sigillo, diversi pendenti raffiguranti il dio-falcone Horo o la croce ansata della dea Tanit, ma anche medaglioni con funzione di amuleto, indossati per annullare o prevenire il malocchio, come antidoto contro il veleno o come semplice simbolo di protezione.